La mammografia non riduce i casi di cancro al seno
Donna - Articoli
Scritto da Tatta Bis     Giovedì 13 Febbraio 2014 13:01 Stampa
Seno LogoLa mammografia non salva la vita alle donne: uno studio canadese, appena pubblicato sul "British Medical Journal", ha dimostrato che lo screening mammografico (l’indagine condotta su persone fra i 40 e i 59 anni), non riduce la mortalità per tumore al seno, come ci si aspettava, se confrontato con la palpazione. 
 
La mammografia porterebbe addirittura sovrastimare i casi e spingerebbe a cure non necessarie, succede ad una donna su cinque, lo ha dichiarato Anthony Miller della University of Toronto, il principale autore dello studio, la diagnosi di tumore, che risulta dalla mammografia, è sbagliata. 
 
Mammografia

Esiste da tempo un dibattito, sull'utilità degli screening, la Svizzera ad esempio non promuove più programmi di questo tipo, proprio perché non sembrano incidere sulla sopravvivenza e portano a trattamenti inutili e dannosi per gli effetti collaterali che comportano.
 
Pierfranco Conte, professore all’Università di Padova e Direttore dell’Oncologia 2 dell’Istituto Oncologico Veneto Irccs spiega che con gli screening sono aumentate enormemente le diagnosi di carcinoma mammario cosiddetto in situ: un tumore che non dà metastasi, ma che viene però trattato con la chirurgia e la radioterapia. 
 
Molti tumori possono anche scomparire, ma una volta che vengono intercettati, è impossibile sapere se sono pericolosi oppure no e vengono curati comunque. 
 
Secondo molti esperti, non è ancora il momento di cancellare i programmi di prevenzione (nonostante lo si sia già fatto per un’altra neoplasia, quella della prostata, la cui diagnosi precoce viene fatta attraverso la misurazione del Psa, l’antigene prostatico specifico, nel sangue), ma sarebbe prima opportuno rivedere tutti gli studi finora condotti, compreso quello canadese. 
 
Lo studio ha il merito di aver coinvolto 90mila donne e di essere durato 25 anni ed è finora il più ampio riportato dalla letteratura medica, ma che ha anche qualche limite.
 
Gli studiosi canadesi hanno scelto la sopravvivenza come parametro per valutare l’efficacia dello screening, ma probabilmente non è il migliore, soprattutto quando si misura su un lungo arco di tempo. 
 
Nel frattempo, possono intervenire altre malattie che possono portare a morte e confondono i dati e poi bisogna considerare le macchine: un mammografo di 25 anni fa non è come uno di oggi.
 
Il potere diagnostico di questi strumenti è migliorato moltissimo, i dati canadesi, fanno capire che è arrivato il momento di ripensare i modelli di screening e suggeriscono di tener conto non soltanto della loro efficacia, ma anche dei costi. 
 
Questi risultati dovrebbero scoraggiare l’estensione dello screening al di sotto dei 45 anni e al di sopra dei 70 non trova attualmente giustificazione, la medicina sta cambiando rapidamente. 
 
Il tumore al seno non è una sola malattia, ma un insieme di malattie diverse da un punto di vista genetico, alcune più aggressive, altre indolenti, che hanno in comune solo il fatto di manifestarsi nello stesso organo: la mammella.
 
Gli screening sono costruiti in base al presupposto che la malattia sia unica, per questo gli interventi per la diagnosi precoce andrebbero "personalizzati" in base al singolo paziente, come sta avvenendo per la terapia. 
 
Se una persona ha familiarità per il tumore, ha un determinato profilo ormonale, ha certe abitudini che riguardano anche la vita sessuale, va seguita in maniera più accurata con i test (che oggi comprendono anche l’ecografia o la risonanza magnetica) rispetto a chi non ha tutte queste caratteristiche. 
 
Bisognerebbe creare un identikit dei rischi che permette di individuare le donne che devono essere seguite con più attenzione e si avrebbe anche un risparmio sui costi.
 
La mammografia è un esame al seno effettuato tramite una bassa dose di raggi X, lo screening (l’indagine per una diagnosi precoce) è consigliato e gratuito in molti paesi, tra cui l’Italia, ogni due anni, superato un certo limite di età. 
 
Fonte: British Medical Journal


 

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